VI Premio Graziadei – Menzione speciale → Mohamed Keita: Steps in Rome

About This Project

La prima fotografia Mohamed Keita l’ha realizzata con una macchina usa e getta regalata da un volontario alla Stazione Termini di Roma. Mostra uno zaino blu, in bilico su un sacco di plastica con dentro una coperta, e sotto un paio di strati di cartone riciclati, come un giaciglio, a proteggere un bagaglio minimo. Ricorda gli scatti di oggetti assemblati da Fischli & Weiss negli anni ’80, sprigiona lo stesso senso di transitorietà, e rivela la grana della notte, di locali nascosti e male illuminati, riflessi di un viaggio incerto verso la libertà.

Mohamed Keita è nato in Costa d’Avorio e, dopo aver perso entrambi i genitori nella guerra civile, a quattordici anni ha deciso di lasciare il suo paese, rompendo legami e radici. È arrivato in Italia al termine di un’odissea attraverso Mali, Algeria, Libia e Malta. Tre anni intensi di espedienti, lavori ingrati, scippi, campi profughi, senza una meta, finchè un treno non l’ha depositato alla Stazione Termini, nel centro di Roma. È l’1 marzo 2010. Mohamed Keita dorme novanta giorni in stazione prima di entrare in contatto con i volontari di Civico Zero, e con un progetto di accoglienza che include lezioni di fotografia.

In un’epoca storica in cui indirizzi email, numeri di cellulare, algoritmi e social network comandano le relazioni, sembra impossibile avere una voce al di fuori della propria comunità di appartenenza, familiari, amici di lungo corso, colleghi. Frenesia e disattenzione governano il resto, soprattutto gli attraversamenti da un luogo a un altro, meccanici e per lo più senza emozioni, al più qualche arrabbiatura. Mohamed Keita si ritrova catapultato in questi luoghi di passaggio, incapace di comunicare, invisibile, o peggio indizio di un problema sociale e politico.

“La fotografia mi ha permesso di parlare senza la voce”, dice. La sua prima fotografia a Termini non è esattamente la prima; ancora in Costa d’Avorio, Mohamed Keita puntava la macchina fotografica verso gli amici, loro ricambiavano. Ma nessuno conservava quelle fotografie, istantanee di adolescenti, un altro gioco per ammazzare il tempo. Adesso la fotografia è molto di più: è una prova di esistenza, uno strumento di riscatto sociale, che passa per il dare un volto – a volte solo un corpo – a una comunità di pari, emarginati dalla società e strumentalizzati dai media.

Le comunità fotografate da Mohamed Keita non sono quelle ritratte nei celebri diari visivi di Nan Goldin e Wolfgang Tillmans, scattati negli anni ’80 e ’90 tra case derelitte e locali underground. Qui il minimo comune denominatore è la strada, per il resto si tratta di comunità temporanee, disperse. Keita fotografa dapprima un repertorio di uomini avvolti in coperte o accovacciati sui cartoni nella serie Termini. Il titolo, semplice denominazione del luogo, allude a viaggi e partenze, ma stride nella sequela di immagini di esseri umani gettati a terra, tra sampietrini, tag, poster di vecchi concerti e pubblicità. Mohamed Keita coglie visivamente l’ossimoro e amplifica il senso di disturbo.

La seconda serie, un work in progress attraverso la capitale – dove vive ancora oggi – si intitola Felicità e Tristezza e inizia circa tre anni fa. Mohamed Keita vaga dal centro alla periferia, allarga lo sguardo e l’orizzonte della sua ricerca, in una Roma appena riconoscibile: non è bella, non è monumentale, non è rassicurante. In una fotografia un uomo barcolla con la sua coperta in Via del Tritone, sullo sfondo c’è la sede del Messaggero, il tutto sfocato come in un miraggio dettato dallo sfinimento; in un’altra, una donna si trascina a fatica su una scalinata che trasuda storia. I soggetti di Mohamed Keita sono spesso anziani: la scelta è deliberata, sono i più deboli, invisibili, hanno più passato che futuro, e sono testimoni involontari di quella linea di continuità ai cui estremi si collocano felicità e tristezza.

Lo sguardo si ferma su schiene piegate, uno sguardo indulgente, corpi e rifugi di fortuna rincalzati in tessuti vivaci. Mohamed Keita non si oppone all’ironia data dal contrasto tra soggetto rappresentato e colore, la accoglie invece come un dato di realtà. Sono passati trent’anni dallo scandalo intorno al vestito rosa di una neonata ritratto in una sala d’attesa del dipartimento di salute e sicurezza sociale da Paul Graham nell’ambito del progetto fotografico Beyond Caring (1981). Una tonalità che allora sembrò inadeguata a raccontare disoccupazione e povertà dell’era Thatcher nello stile documentario dei tempi, e che adesso – nell’opera di Mohamed Keita – si offre piuttosto come un contrappunto, che restituisce altresì la visibilità perduta ai soggetti fotografati.

Mohamed Keita non cerca né segue mappe prestabilite; deambula senza scopo, si immerge in un’osservazione profonda del mondo lasciandosi guidare dalle sollecitazioni e dagli incontri. Alcuni giorni afferra la macchina fotografica e scatta, altri cammina solamente. Ed è qui che riecheggia l’errance di Guy Debord, nel titolo della mostra, ma anche la condizione esistenziale dell’autore, formatosi in un viaggio che è più un insieme di azioni – e attenzioni – che un progetto definito dal contesto sociale o dall’abitudine.

PREMIO GRAZIADEI 2017

Menzione speciale

GIURIA

Andrea Botto
Marco Delogu
Francesco Graziadei
Francesco Neri
Thomas Seelig

Category
VI Edizione